In
un sistema ove i meccanismi di accumulazione del capitale facciano riferimento
a un unico principio generatore – quello della massima redditività – e dove la
valutazione morale del dogma del profitto sia, in quanto tale, sistematicamente
espunta dalla stima del comportamento economico dei soggetti - , l’origine
delle crisi sistemiche non può che essere ricondotta alle intime contraddizioni
che il modo di produzione capitalistico racchiude in sé.
La
grande maggioranza degli economisti (liberisti, neoliberisti, keynesiani,
neokeynesiani, ricardiani, neoricardiani, regolazionisti, etc.), dei politici e
dei governanti, ritiene che questa crisi sia il prodotto di una crisi
finanziaria sfociata a gravare sull’economia reale (l’agitare la coda della
finanza che muove il cane dell’economia reale di keynesiana memoria),
sottovalutandone la profonda connotazione sistemica.
In
un’economia capitalistica, le ricorrenti crisi sono il modo in cui si
manifestano gli attriti interni ai meccanismi di accumulazione.
Il
principale problema che affligge un’economia fondata sul famigerato modo di
produzione capitalistico è dato dalla contrapposizione tra produzione e
mercato; infatti, scopo delle imprese è quello di produrre merci il cui costo
di produzione sia il più basso possibile e venderle al prezzo più alto
possibile, allo scopo di massimizzare i profitti. La riduzione dei costi di
produzione passa anche attraverso la realizzazione di “economie di scala”, cioè
per la produzione di un maggiore quantità di merci nello stesso tempo di lavoro
e a costi decrescenti (e, compatibilmente, con le condizioni della concorrenza,
riducendo anche la qualità del prodotto). Per fare ciò, vengono introdotte
tecnologie produttive sempre più sofisticate, macchinari più moderni a
sostituire la forza lavoro e la razionalizzazione dei flussi produttivi,
unitamente all’aumento di ritmi e intensità di lavoro da parte dei lavoratori.
Questa
corsa all’aumento dei margini di profitto - e alla competizione concorrenziale
tipica del mercato aperto - , conduce fatalmente la produzione ad eccedere le
capacità ricettive del mercato, causando un permanente squilibrio tra capacità
produttive e limiti di assorbimento dei potenziali acquirenti.
La
sfrenata corsa del capitale alla ricerca della massima redditività produce una
massiccia sostituzione della forza lavoro con macchinari, e la conseguente
espulsione di lavoratori dal processo produttivo: questo va a incrementare le
fila dell’ ”esercito industriale di riserva” e ad abbassare il costo del lavoro,
ma, al tempo stesso, limita le possibilità del mercato di assorbire le merci.
L’espulsione di lavoratori dal processo produttivo origina un incremento della
domanda di occupazione (alla base della diminuzione del costo del lavoro) e,
contemporaneamente, una riduzione della capacità concertativa e contrattuale
delle forze sindacali. Secondo un studio della Banca dei
regolamenti internazionali, dagli anni ’80 ad oggi in tutti i principali Paesi
industrializzati si è avuto uno spostamento del Pil dai salari ai profitti: in
Italia, la quota dei profitti è aumentata dal 23.1% del 1993 al 31.3% del 2005,
per un valore equivalente di 120 miliardi di euro. Da sottolineare che la causa
di questo fenomeno viene attribuita, non già alla concorrenza con i lavoratori
dei Paesi in “via di sviluppo”, ma alla riduzione della capacità di resistenza
e negoziazione dei lavoratori, di cui si è detto.
Inoltre, la
riduzione della capacità di acquisto dei salari ha incrementato il ricorso al
lavoro straordinario, che ha ridotto vieppiù la domanda di forza lavoro e aggravato la
disoccupazione.
Mentre da un
lato si moltiplica l’offerta di merci sul mercato, dall’altro si riduce la
domanda di un mercato costituito, per la grande maggioranza, da lavoratori
dipendenti, provocando uno squilibrio tale da non permettere alla domanda di
crescere in maniera proporzionale all’offerta. Questo produce una tendenza alla
sovrapproduzione di merci: questa tendenza è tipica del modo di produzione
capitalistico, votato unicamente all’espansione dei margini di profitto.
Le
crisi capitalistiche – ricordiamolo, eminentemente sovrapproduttive – sono il
modo violento in cui il capitale tenta di risolvere le proprie contraddizioni.
Nel corso di una crisi, non vengono solamente bruciati miliardi di capitale
fittizio nei crolli borsistici, ma anche una consistente quota di capitale
reale, attraverso la svalorizzazione delle merci invendute e giacenti nei
magazzini o smerciate sottocosto, e dei mezzi di produzione sottoutilizzati o
inattivi.
Ma,
qual è il legame tra credito, produzione e mondo finanziario?
Per
finanziamento d’impresa si intende quel complesso di operazioni con cui quest’
ultima acquisisce i mezzi finanziari necessari per lo svolgimento della sua
attività. La fonte può essere interna, mediante l’ ”autofinanziamento” che si
compendia nella definizione “capitale di rischio” (cioè, il capitale portato
dai soci o dal singolo proprietario); oppure, esterna, ove si ricorra al
credito nella sua accezione più ampia, riassunto dalla formula “capitale di
debito”.
Il
credito a un’azienda può essere fornito da un istituto bancario, attraverso
l’emissione di obbligazioni o mediante la quotazione in Borsa. Normalmente, la
preferenza per uno di questi tre metodi di approvvigionamento di risorse
materiali, idonee alla creazione o al mantenimento di un ciclo produttivo, è
legata alle dimensione della società: le piccole imprese sono quasi interamente
legate alla concessione di crediti da parte di istituti bancari (con tutte le
implicazioni e i rapporti di potere che si creano a livello locale: non ultime,
lo sfociare verso forme di finanziamento gestito da entità legate al
malaffare); a un livello più alto, l’ impresa si rivolge normalmente al credito
bancario e all’emissione di obbligazioni; le grandi imprese tendono a ricorrere
alternativamente a tutte e tre le opzioni.
In
ambito capitalistico, la contrapposizione tra “economia finanziaria” e “reale”
è fuorviante.
In
realtà, i due ambiti sono interdipendenti: l’enorme sviluppo del credito
(banche) e dei mercati finanziari (Borse) ha, all’origine, l’affermazione -
propria del capitalismo industriale maturo - delle grandi industrie
multinazionali (corporation) e del loro bisogno di capitali sempre più grandi
per sostenere l’ attività. Inoltre, la tendenza a una necessità di capitali
sempre più grande viene incrementata da una concorrenza sviluppata a livello
mondiale, da una crudità del sistema competitivo (articolato attraverso
fusioni, acquisizioni, OPA ostili, etc.), dalla necessità di economie di scala
sempre più pronunciate.
Evidentemente,
una massiccia offerta di credito finisce per stimolare la tendenza alla
sovrapproduzione di capitale e di merci, attraverso l’allargamento della
produzione; e può, attraverso un’ offerta eccedente di liquidità generare bolle
speculative (immobiliari, borsistiche, etc.).
Questo
sancisce il nesso di interdipendenza tra credito e crisi.
Come detto, il sistema capitalistico occidentale versa da anni in uno stato di
sovrapproduzione, a cui si è risposto favorendo il credito facile (e il
conseguente indebitamento) sia dal lato della produzione che da quello del
consumo (mediante il sostegno del “consumo a debito”).
Negli
USA, per anni, e con il beneplacito dei governi (preoccupati di mantenere
intatto il “way of life” interno), la FED ha mantenuto bassissimo il costo del
denaro, spingendo le banche a prestare, anche senza il supporto di qualsiasi
ragionevole garanzia (ciò che poi, sostanzialmente, darà origine alla crisi dei
mutui “subprime”).
La
famosa crisi del ’29 aveva prodotto una rigorosa regolamentazione dei mercati
finanziari; questa regolamentazione si era, da fine anni ’60 in poi, via via
andata sempre più allentandosi, fino al definitivo “via libera”, conclamato con
l’abolizione del “Glass-Steagall Act” (e che aveva lo scopo di introdurre una
separazione tra attività bancaria tradizionale e attività bancaria di
investimento). Questa liberalizzazione apriva la strada alla cosiddetta
“finanza strutturata”, in grado di concepire prodotti finanziari ad alto
rischio e profondamenti opachi ( tanto da risultare ostica l’analisi e il
controllo anche da parte degli organi preposti).
Ecco
che nascono i prodotti “derivati” – rapporti di debito/credito trasformati in
prodotti vendibili a terzi – come i CDO e i CDS, i quali hanno dato vita a un
mercato fiorentissimo e tale da superare il valore delle transazioni
borsistiche tradizionali. La finanza creativa ha, inoltre, introdotto forme di
incentivazione all’indebitamento particolarmente sofisticate come le carte di
credito revolving e altro.
In
buona sostanza, la domanda di beni di consumo è stata drogata da forme di
indebitamento forzose e opache, senza basi consistenti e interamente fondate su
un rapporto debitore/creditore decisamente instabile (come i fatti del 2007
confermano).
Negli
Usa e nel Regno Unito il debito delle famiglie, nel 2007, aveva raggiunto il
100% del Pil. Un ulteriore sintomo della liberalizzazione dei capitali
finanziari è dato dalla leva finanziaria di cui potevano disporre le banche: la
leva finanziaria è quel valore che, a fronte di una riserva valutaria presente
nei forzieri, designa l’entità dei prestiti erogabili. Le banche europee, per
ogni euro di capitale posseduto, potevano darne in prestito 40; quelle USA
ancora di più. E’ evidente che un’ alta leva finanziaria determini, allo
scoccare di una crisi, una forte
esposizione e una conseguente fragilità del sistema bancario.
Un
sistema così squilibrato è un sistema che si è spinto “troppo in là”: nel 2007,
la bolla immobiliare che aveva alimentato il consumo a debito di migliaia di
famiglie statunitensi e che aveva permesso alle banche di impacchettare
migliaia di miliardi di dollari di CDO e CDS, venduti agli investitori di tutto
il mondo, è scoppiata, provocando un crollo del sistema bancario e assicurativo
nordamericano ed europeo, rimpinzato di titoli di credito del tutto inesigibili
e assicurati da una pletora di CDS, anch’essi insolventi.
Numerosissime
banche, costrette ad iscrivere le perdite a bilancio (anche a fronte di società
satellite create allo scopo di ripulire i bilanci necessari per sancire una
presentabilità borsistica), falliscono, vengono acquisite a prezzi irrisori,
oppure vengono salvate dallo Stato.
Migliaia
di miliardi di capitalizzazione borsistica vengono bruciati e, quel che è
peggio, si ingenera un clima di sfiducia che porta al blocco del sistema
interbancario e, conseguentemente, una grave contrazione del credito, con
effetti devastanti per le aziende, già pesantemente indebitate e alle prese con
una concorrenza internazionale forte (ulteriore conseguenza della globalizzazione).
Tirando
le somme, il mondo occidentale a capitalismo avanzato - e l’ insieme delle economie assorbite dai
venti impetuosi della globalizzazione neoliberista – entra, a partire dai primi
anni Settanta, in una spaventosa crisi sovrapproduttiva - dovuta essenzialmente alle intime logiche del
modo di produzione capitalistico - che,
a seguito della ricerca del mantenimento del tasso di profitto, origina una
progressiva finanziarizzazione dell’ economia (l’ Arrighi lega questo fenomeno
ad un processo di transizione egemonica imperialistica, dovuta allo spostamento
del dominio economico globale verso la Cina: ma questa è un’ altra storia).
Reagan
negli USA, la Thatcher in Europa, assurgono a vessilliferi di un’ economia che
si incarica di drenare le risorse che erano state, dopo la fine della Seconda
Guerra Mondiale, distribuite attraverso modelli sociali improntati ad una più
attenta concertazione con il mondo del lavoro; pertanto, con la collaborazione
fattiva di un mondo politico gonfio delle logiche introiettate dai Chicago Boys
(corrente di pensiero economico neoliberista capitanata da Milton Friedman), il
capitalismo vive una fase di recrudescenza che, nel corso degli anni e in base
ad una gradualità temporale capace di desensibilizzare le masse (già provate
nella loro coscienza dagli effetti “mitridatizzanti” dei mediatori culturali e
informativi), conduce inesorabilmente ad un arretramento spaventoso dei diritti
riconosciuti ai lavoratori.
Banca
Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Unione Europea, WTO, novelli
Cavalieri dell’ Apocalisse, dominano, in forza di trattati ottenuti da governi
acquiescenti, le politiche economiche del mondo capitalistico: a forza di
privatizzazioni, liberalizzazioni dei movimenti di capitale, riduzione della
funzione protettiva dei sistemi di “Welfare” degli Stati nazionali,
“mercatizzazione” e mercificazione della vita sociale degli individui, “et
cetera”, l’ imperante “ratio” economicistica della vita sul globo ha preso il
sopravvento ed ha, gramscianamente, egemonizzato l’ immaginario collettivo,
confinandolo entro gli angusti confini di un mondo in cui i rapporti sociali
altro non sono che una miriade di transazioni commerciali regolate dell’
interesse individuale. A far da sfondo, un mondo sempre più avvelenato dai
prodotti di scarto di una società che vive di una riproduzione costante di
miliardi di inutili oggetti, per
arricchire una ristrettissima cerchia di individui e lasciare il “godimento” delle
scorie a tutti gli altri.
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