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giovedì 23 gennaio 2014

SUSSUNZIONE di Fausto Rinaldi

 
Il concetto di sussunzione, in Marx, assume il significato preminente di assoggettamento del lavoro al capitale. Questo assoggettamento comporta la sottoposizione ad un nutrito numero di vincoli, primo fra tutti quello che è all’ origine delle dinamiche di accumulazione capitalistica: la competizione (che si articola nei vari gradi di “competitività”, concetto alla base di tutte le politiche produttive e commerciali delle imprese).
Visto che il costo del lavoro è un fattore produttivo preminente, le logiche capitalistiche, orientate verso la massima competitività (tu chiamala, se vuoi, “vendibilità del prodotto”), vedono nel suo contenimento un fattore cruciale. Ecco che il lavoratore viene così a subire la costante pressione alla riduzione del suo costo di produzione, cioè del suo salario (inteso come quella quantità di denaro che ne permetta la riproduzione esistenziale; in relazione alle esigenze – bisogni primari e secondari – legate al modello sociale di appartenenza).
Una sorta di “legge di gravitazione economica borghese”, una legge “naturale” - sancita e conclamata dalle dotte scritture prodotte dalla monocultura neoliberista -  che comprime inevitabilmente reddito ed esistenza sociale delle masse lavoratrici.
Pertanto, il lavoro (da dividersi, marxianamente, in “lavoro vivo”, cioè, quello del ciclo produttivo in atto; e “lavoro morto”, cioè, quello incorporato nei mezzi di produzione), ridotto a mero fattore di produzione - e, nel ciclo capitalistico, diventato “merce” - , viene svilito e prosciugato della sua componente umana: al lavoratore, una volta liquidato con la corresponsione del salario, non sono riconosciute caratteristiche che possano ricondurre la sua figura a fattezze “umane”; egli è merce e fattore produttivo inerte.
Tutto ciò perché la “bronzea legge del profitto” è impressa a lettere di fuoco nella cultura dominante -  che è, come suggerisce il vate di Treviri, la cultura delle classi dominanti.

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